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Toni Nadal scrive di suo nipote Rafa dopo il trionfo dell’Australian Open-

Su segnalazione di Pato Remondegui, Direttore di Tennis Accademy Ravenna, pubblichiamo un’interessante riflessione di Toni Nadal sul diverso atteggiamento di suo nipote rispetto alle nuove generazioni. Il coach argentino Remondegui, che ha tradotto interamente questo pezzo in italiano, attualmente allena al Circolo Tennis Zavaglia e in passato è stato coach delle sorelle Zanetti, Adriana (prima italiana a raggiungere i quarti agli Australian Open ed ex n. 38 del mondo) e Antonella (ex n. 60). Successivamente è stato uno dei primi allenatori di Lucia Bronzetti, tennista che ha seguito per dieci anni, prima che Bronzetti si trasferisse nel team dei fratelli Francesco e Alessandro Piccari circa tre anni fa. In questa accademia ad Anzio nella quale si è unita come allenatrice Karin Knapp (moglie di Francesco), tra le allieve di spicco figura anche Deborah Chiesa. Durante questi ultimi giorni e a seguito dell’acclamato trionfo di mio nipote all’Open d’Australia, ho letto e ascoltato ripetutamente un’infinità di lodi rivolte alla sua persona. In molti di questi commenti si faceva riferimento alla sua forza mentale, alla forza mostrata di fronte alle difficoltà e alla sua capacità di superare situazioni molto avverse. In tanti si sono chiesti quale sia la ragione di tutto questo e alcuni hanno anche osato dare qualche spiegazione. Io, un po’ conoscitore del particolare caso in esame, farò parte di questi ultimi. Senza alcun intento di essere in possesso della verità assoluta, cercherò di spiegare le chiavi che, a mio avviso, fanno sì che Rafael risponda così a queste situazioni e che ciò risulti così singolare nei momenti attuali perché, evidentemente, ciò che rende ammirevole il fatto, soprattutto, è la sua eccezionalità. In molte occasioni mi sono chiesto non tanto perché lui sia capace di fare così, ma perché non si comporti in questo modo la maggior parte delle persone che aspirano a ottenere qualche importante risultato nella vita. Capisco che quando uno prende una decisione del genere si assume la responsabilità di affrontare difficoltà e sfide che tutto ciò comporta e presumo che sarà interessato a fare tutto il necessario per raggiungere lo scopo. Da qui la mia sorpresa quando constato che ciò non avviene in maniera abituale. E il mio disapounto cresce quando capisco che questo modo di agire si verifica in tutti i settori e non solo in quello tennistico o sportivo. Poiché ciò è così, a mio modo di vedere, sarebbe bene ripensare i nostri principi e chiederci, come minimo, se con il modello attuale stiamo formando correttamente i nostri giovani e se li aiutiamo ad affrontare con garanzia il suo futuro. In un passaggio del saggio La civiltà dello spettacolo, Mario Vargas Llosa scrive: “Cosa significa civiltà dello spettacolo? Quella di un mondo in cui il primo posto nella scala dei valori attuali è l’intrattenimento e dove divertirsi, sfuggire alla noia, è la passione universale”. E aggiunge che questo ideale nella vita è perfettamente legittimo, ma avverte anche le sue conseguenze inaspettate, e continua: “In questo modo, non annoiarsi, evitare ciò che disturba, preoccupa e angoscia è diventato sempre più per i settori sociali dall’apice alla base della piramide sociale, un mandato generazionale”. Aggiungerei che ciò ha conseguenze contrarie, se non devastanti, per una buona formazione del carattere. Ciò che descrive lo scrittore peruviano-spagnolo non è iniziato ora, è dove siamo arrivati in un processo di declino iniziato qualche decennio fa, ma si è ampliato enormemente con il mondo tecnologico attuale e con il buon impegno che in questo momento ci stanno mettendo alcuni dirigenti alla ricerca del favore popolare, e sostenuti da un gruppo crescente di popolazione bisognoso di pensare che stia contribuendo a creare un mondo ideale e a vantarsi del suo grande cuore, della sua eccelsa correttezza e della sua singolare empatia. E così, gradualmente, siamo riusciti a disprezzare tutto ciò che richiede sforzo o che ci mette minimamente a disagio. Nella mia vasta esperienza nel campo della formazione tennistica, ho constatato come si siano accentuati nei giovani la frustrazione, l’astio e l’abbandono subito di qualcosa che li turba o non viene immediatamente come desiderano. Le nuove generazioni hanno sempre più bisogno che gli allenamenti siano divertenti, che le ricompense siano immediate e che vengano applauditi al minimo progresso. E tornando al perché Rafael è sfuggito a tutto questo ed è capace di agire come agisce, la mia risposta è semplicemente: perché ci si è abituato. Non vede altro modo di fare. Mai visto in un esame, almeno non è successo a me, che qualcuno potesse rispondere a ciò che non aveva studiato. Mio nipote si è preparato per molti anni, praticamente per tutta la vita, ad affrontare la difficoltà. Per questo sono stato un allenatore molto esigente, poco compiacente, molto poco dedito all’adulazione e quindi coerente con il percorso scelto. Mio nipote aveva l’obbligo, inculcato da me all’inizio, assunto da lui dopo, di non lamentarsi, di entrare in campo ogni giorno di buon umore, di accettare che le cose non vanno bene immediatamente e di assumersi la responsabilità di affrontare difficoltà sia fisiche che mentali. Ha accettato l’esigenza, assolutamente tutti i giorni di tutti gli anni che si è allenato con me, di entrare con una buona faccia in campo, di non rompere una racchetta (segno di sconforto), di allenarsi più a lungo del previsto, di non lamentarsi mai e di colpire la palla ogni volta nel modo migliore che potesse. Ma, soprattutto, di capire e accettare che anche se fa tutto questo, non necessariamente le cose vanno bene. È cresciuto ascoltando e soprattutto assimilando tutta una serie di frasi che gli ho ripetuto instancabilmente:“Se non sei in grado di sconfiggere il tuo rivale, almeno non aiutarlo a sconfiggerti”. “Fare tutto ciò che tocca non ci garantisce il successo; non farlo quasi certamente ci garantisce il fallimento”. “Quando combattiamo in una situazione del tutto avversa, quasi sempre finiremo per perdere; ma ci sarà un giorno in cui riusciremo a girare la situazione. E quel giorno giustificherà tutti i precedenti”. “È molto difficile dominare la palla se non sei in grado di dominare la tua volontà”. Tutte queste frasi, e alcune altre, Rafael le ha interiorizzate e applicate costantemente. A volte mi è stato attribuito un certo merito nel modo in cui si comporta Rafael. Senza falsa modestia, non è così. Dirlo è molto facile. Il merito è solo ed esclusivamente suo, perché è stato disposto ad obbedire, prima, e ad interiorizzare e ad applicare in seguito. Che Rafael fosse in grado di fare quello che ha fatto nella finale di domenica a Melbourne, e di tante altre domeniche, risponde in parte all’applicazione di tutti questi apprendimenti, ma soprattutto, non illudiamoci, ad un talento insolito e ad un’abilità innata impropria nella maggior parte dei giocatori. Indipendentemente dal numero di titoli ottenuti, ho già visto questo spirito di lotta, questa concentrazione e questa fede incrollabile nella vittoria in giocatori come Mats Wilander, Björn Borg, Steffi Graf, Arantxa Sánchez Vicario o il mitico Rod Laver, e in altri tennisti con meno successo sportivo. La cosa inquietante è senza dubbio che oggigiorno questo sia un fatto eccezionale. Nadal Toni ...

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