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Coach Of The Year Award: come funziona e perché Djokovic ha torto-

Novak Djokovic non ha problemi ad apparire antipatico intervenendo come noto con una storia su X abbinando ai complimenti di rito a Cahill e Vagnozzi la riflessione scherzosa verso Ivanisevic: “Cosa mai dovremo vincere perché tu sia considerato? Quattro Slam su quattro?”. Novak sa trarre il meglio da sé anche da questi momenti di disappunto e forse ora sta immaginando la platea dei coach che lo fischiano e con la mente sta muovendo le braccia come per orchestrarne lo scomposto zufolare. Certo è che il post in cauda venenum fa apparire le felicitazioni per Cahill e Vagnozzi molto, molto vuote e meramente dovute. Non deve essere semplice essere il coach di un supervincitore come Djokovic. Il campione serbo offre sovente l’impressione di vincere senza faticare; a volte gli avversari, come Carlos Alcaraz a Parigi, avvertono malesseri fisici all’idea di dover sovvertire un pronostico a loro tanto avverso. Il suo dominio è spesso schiacciante e nei confronti dei suoi allenatori non è difficile ascoltare o leggere i commenti in passato dedicati ad allenatori di calcio come Bigon, che aveva Maradona, o anche il primo Capello, che ereditò il Milan di Sacchi: “Con lui in squadra vincerei anche io”. Nel tennis è toccato a suo tempo a Pavel Slozil, che allenò la quasi invincibile Steffi Graf dal 1986 al 1991. Ma a chi si assegna dunque il “Coach of the Year Award”? La platea degli allenatori vota il coach scelto tra un numero di candidati che, come definito dalla ATP stessa “ha aiutato il giocatore a raggiungere un livello superiore nelle proprie prestazioni durante l’anno”. L’Albo d’Oro del premio dal 2016 vede scorrere i nomi di Magnus Norman (Wawrinka), Neville Godwin (Kevin Anderson), Marian Vajda (Djokovic), Gilles Cervara (Medvedev), Fernando Vicente (Rublev), Facundo Lugones (Norrie) e Juan Carlos Ferrero (Alcaraz). Non si tratta dunque di prendere di riflesso il nome del coach di chi ha vinto di più e votarlo quale sia il suo comunque indubbio valore, anche perché in tal modo non servirebbero voti e probabilmente, in ultima analisi, nemmeno il premio avrebbe una qualche utilità. Si tratta di valutare chi ha guidato la crescita del tennista protetto fino a fargli muovere in avanti i propri limiti. Djokovic ha avuto un 2023 decisamente più vincente di Sinner, ma l’azzurro è entrato in una dimensione nuova, mentre l’asso di Belgrado ha confermato il proprio livello. Sulla Gazzetta dello Sport del 14 dicembre si accenna anche alla figura ingombrante di Djokovic, maestro della risposta “dentro e fuori dal campo”; in realtà l’intervento del 24 volte vincitore Slam va inteso probabilmente come volto difendere e nello stesso tempo riconoscere il valore di Goran. Non è però un caso che Marian Vajda abbia vinto il riconoscimento come mentore del serbo nel 2018, anno che segna la rinascita e il ritorno al vertice dopo un 2017 che lo ha visto uscire persino dalla top ten. ...

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