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Djokovic tiene Federer “al chiuso”, Shapovalov è esausto. Khachanov principe di Parigi

1 – le vittorie ottenute da Roger Federer negli ultimi cinque incontri giocati sul cemento indoor contro Nole Djokovic. Inoltre, lo svizzero contro il serbo aveva vinto due delle ultime sette partite giocate e, in generale, aveva conquistato “solo” ventidue dei quarantasei confronti diretti. Da una parte c’era il momento magico di Djokovic, tornato al numero 1 del ranking dopo aver recuperato venti posizioni in quattro mesi, e, dall’altra, quello in chiaroscuro degli ultimi mesi di Federer: insomma, non era facile prevedere lo splendido equilibrio vissuto nelle tre ore e passa della semifinale di Bercy. Tra le tante ragioni a spiegare quanto visto lo scorso sabato, può essere utile anche ricordare come sempre più il tennis di Roger sia diventato efficace in condizioni indoor. Un’affinità da sempre elevatissima, ma incrementata negli ultimi anni, come si è visto anche in questo 2018, nel quale Roger ha conquistato già due titoli in suddette condizioni di gioco. Più in generale, analizzando a tal riguardo tutte le partite giocate dallo svizzero dal 2014 ad oggi, si nota che Roger in condizioni indoor ha, rispetto alle partite giocate su altre superfici, la migliore percentuale di successi, l’87,5% (42 successi in 48 incontri). Numeri da prendere con le molle e come semplice curiosità, vista la differenza minima percentuale e la grande diversità nel numero di partite giocate in altre condizioni. In ogni caso, come percentuale di vittoria, dal 2014 in poi, ai tappeti indoor segue prima l’erba con l’87,1% di successi (54 vittorie e 8 sconfitte), poi il cemento all’aperto con il suo 87% (134-20) e, come facilmente intuibile, chiude la terra col 70,5 % (24-10). Il Federer visto a Basilea, in ripresa rispetto alla sua versione di Shanghai, ma ancora incostante, doveva confermare di essere nuovamente competitivo ad altissimi livelli: in Svizzera aveva affrontato un solo top 20 (Medvedev) e appena altri due top 40. A Parigi ha invece sconfitto due top 15 (Fognini e Nishikori), prima di impegnare per più di tre ore – e giungere a pochi punti dalla vittoria – il nuovo numero 1 del mondo. Un carico di fiducia fondamentale per contrastare il gran scetticismo generale che aveva accompagnato gli ultimi mesi dello svizzero. Il quale, giusto per inciso, da quando è rientrato a giugno a Stoccarda giocando con continuità (e spesse volte male) ha comunque ottenuto 2920 punti: è solo una molto labile indicazione, ma, considerando il periodo che va da inizio della stagione su erba ad oggi, meglio dello svizzero che per molti dovrebbe ritirarsi, ha fatto una sola persona al mondo, il numero 1 Djokovic. 4 – le sconfitte di Ashleigh Barty nel 2018 contro tenniste non comprese nella top 50 WTA. Due di queste sono arrivate contro giocatrici ex numero 1 (Azarenka a Tokyo e Serena Williams al Roland Garros) e una contro la vincitrice degli ultimi US Open (Osaka a Melbourne). Se poi si studiano le ulteriori quattro sconfitte rimediate nel 2018 dall’australiana con tenniste tra la ventunesima e la cinquantesima posizione del ranking, si vede che due sono arrivate contro ex numero 1 (Kerber a Brisbane, Sharapova a Roma). In tutto il 2018, insomma, solo tre sconfitte (affrontando Sakkari, Tsurenko e Pavlyuchenkova) sono arrivate contro tenniste non vincitrici di Slam o nella top 20. Dati che testimoniano la continuità ad alto livello del rendimento in singolare della 22enne australiana (in doppio è attualmente top ten e due mesi fa ha vinto con Vandeweghe gli ultimi US Open) e fanno intuire, altresì, la sua difficoltà nel battere le migliori: quest’anno, prima di Zuhai, è arrivata una sola vittoria in sette incontri contro top ten (a Wuhan con Kerber) e appena altre due sono arrivate contro tenniste nella top 20, a fronte di altre quattro sconfitte. Il 2018 ha rappresentato la stagione della crescita tecnica e della accresciuta consapevolezza del grandissimo potenziale a sua disposizione. Ashleigh doveva confermare un 2017 che per lei era stato l’anno della svolta: partiva a gennaio da 271 WTA e terminava nella top 20, grazie al titolo a Kuala Lumpur e a due finali nei Premier di Birmingham e Wuhan, torneo dove sconfiggeva ben tre top 10 (Pliskova, Ostapenko e Konta). In questa stagione, grazie al titolo a Nottingham, alla finale al Premier di Sydney e alle semi ai Premier di Montreal, Wuhan e all’International di Strasburgo è arrivata sino al 16° posto del ranking. La sua seconda partecipazione al WTA Elite Trophy (il Masters B) di Zuhai è andata meglio dell’anno scorso, quando si fermò in semifinale. Nel round robin ha superato (6-3 6-4) Garcia, 18 WTA e ha perso da Sabalenka (duplice 6-4), 12 WTA. Ripescata in semi per il miglior quoziente game vinti-persi rispetto alle altre due, si è poi imposta (4-6 6-3 6-2) su Georges, 14 WTA. La facile vittoria in finale su Wang (6-3 6-4) le regala il best ranking di 15° giocatrice al mondo e un’ulteriore fiducia in se stessa: se impara a giocare come sa anche contro le top ten, sentiremo davvero parlare a lungo di lei. 5 – le sconfitte rimediate nelle ultime sei partite giocate da Denis Shapovalov nel 2018. Una stagione comunque positiva, nonostante abbia perso tutti e cinque i confronti giocati contro top 10 e non abbia centrato nemmeno una finale. Il mancino di origine russa ha accumulato esperienza nel circuito e compiuto importanti progressi in classifica (ha chiuso il 2017 da 51 e ora è nei top 30). Tuttavia, è innegabile il calo vissuto nella seconda parte della stagione dal 19enne canadese, giunto a inizio giugno sino al 23° posto del ranking ATP. Una posizione guadagnata soprattutto grazie ai punti della semifinale al Masters 1000 di Madrid, ma anche da quelli garantiti dagli ottavi a Roma e Miami e dalla semifinale all’ATP 250 di Delray Beach. Nei sedici tornei giocati dopo gli Internazionali d’Italia, Shapovalov, oltre a essere incappato in ben tre sconfitte inopinate contro tennisti non presenti nella top 100 (Gulbis a Stoccolma, e soprattutto, Gunneswaran a Stoccarda e Nishikori a Shenzhen) solo in un torneo ha vinto tre partite (a Tokyo, dove è giunto alle semifinali) e in appena altri quattro (tra i quali i Masters 1000 di Toronto e Cincinnati, dove ha raggiunto gli ottavi) ne ha vinte due. Un calo psico-fisico che lo ha spinto qualche giorno fa ad annunciare il suo forfait dalle ATP Next Gen in programma a Milano questa settimana. Un’assenza pesante per gli appassionati italiani, privati del carisma e della spettacolarità del repertorio tennistico del canadese. 10 – le edizioni di Parigi Bercy, dal 2001 ad oggi, vinte da tennisti mai capaci di conquistare uno Slam nella loro carriera. L’ultimo Masters 1000 della lunga stagione tennistica – e dal 2009 anche l’unico a giocarsi in condizioni indoor – vede nel proprio albo d’oro, a differenza dei tornei della medesima categoria, una lunga lista di nomi non altrettanto prestigiosi. Grosjean, Henman, Berdych, Davydenko, Nalbandian, Ferrer, Tsonga, Soderling, Sock e Khachanov, tutti vincitori a Bercy, sono tennisti molto bravi, ma non campioni amati dalle folle. La collocazione sfortunata nel calendario – giocatori esausti dopo dieci mesi di circuito e/o distratti dalle imminenti e più importanti ATP Finals – penalizza il ricco (quasi cinque milioni e mezzo di montepremi) torneo giocato al Palais Omnisport di Bercy. Sebbene al sorteggio del tabellone quest’anno vi fossero nove giocatori nella top 10, il Rolex Paris Masters è stato penalizzato dal ritiro di Nadal a poche ore dal suo esordio in campo. La splendida semifinale tra Djokovic e Federer e la vittoria di una possibile futura star del tennis come Khachanov, classe 96, hanno comunque garantito spettacolo. Il russo prima di Parigi aveva sconfitto solo due volte dei top ten (non considerando il successo a seguito del ritiro di Nishikori dopo pochi giochi ad Halle nel 2017), ma in Francia ha dato il meglio di sé, soffrendo – e molto – solo contro Isner (6-4 6-7 7-6) al quale ha annullato due match point. Nei due turni precedenti a quello degli ottavi contro lo statunitense non aveva smarrito un set né contro Kraijinovic (7-5 6-2) né contro Ebden (6-2 2-0 RET) e così ha incredibilmente continuato a fare contro tre top ten (di cui due top 5) come, nell’ordine, Zverev (6-1 6-2); Thiem (6-4 6-1) e Djokovic (7-5 6-4). Una meravigliosa sorpresa si è concretizzata a Bercy anche se da Wahington in poi – a eccezione della sconfitta di San Pietroburgo con Wawrinka, la cui classifica è da prendere con le molle – Karen non perdeva se non da giocatori nei primi quindici posti del ranking ATP. 13 – il best career ranking di Fabio Fognini, raggiunto per la prima volta il 31 marzo 2014. Il ligure era quasi certo di migliorare la sua classifica dopo Bercy e di salire al dodicesimo posto, posizione raggiunta da Paolo Bertolucci nel 1973, ma la finale raggiunta da Khachanov glielo ha, almeno momentaneamente, impedito. Ancora oggi quella raggiunta da “Braccio d’oro”, ora apprezzatissimo commentatore televisivo, è la terza miglior posizione in assoluto mai colta da un italiano nelle classifiche maschili da quando è stato introdotto il computer per stilarle. La prima è il 4 ATP raggiunto da Adriano Panatta nel magico 76 del tennis italiano, seguita dal settimo posto conquistato da Barazzutti nel 1978, anno nel quale al Roland Garros l’attuale capitano della squadra di Coppa Davis si issò sino alla semifinale, una delle quattordici (con due finali perse) che raggiunse in quella stagione. Il 2018 resta comunque il miglior anno, sinora, della carriera di Fognini, che in precedenza altre due volte aveva chiuso l’anno nella top 20, ma in posizioni peggiori (come 16 nel 2013 e come 20 ATP nel 2014). Mai, come accaduto in questa stagione, aveva vinto tante partite, 46 (precedentemente il suo record era 42, nel 2013); portato a casa più tornei, tre (San Paolo e Bastaad sulla terra, Los Cabos sul cemento) e raggiunto un numero complessivo maggiore di finali (quattro, aggiungendo quella persa a Chengdu). Chiude il 2018 anche con la miglior percentuale stagionale di successi contro top ten, 40%, grazie ai due successi contro Thiem a Roma e Del Potro a Los Cabos. I rimpianti di questo 2018 restano per lui la finale persa in Cina dopo aver sprecato quattro match point contro Tomic, e il non essere stato capace di piazzare l’acuto nei tornei che contano maggiormente, se si eccettuano i comunque buoni ottavi raggiunti a Melbourne e Parigi (precedentemente, solo altre tre volte in carriera si era spinto così avanti nei Major) e i quarti al Masters 1000 di Roma (appena in altre tre circostanze era arrivato tra i migliori otto di un Masters 1000). Proprio negli appuntamenti più prestigiosi il numero 1 azzurro sa bene che deve e può fare meglio, ma intanto è giusto che si goda il meritato riposo dopo un’ottima stagione. 21 – i match vinti da Quiang Wang in questi ultimi cinquanta giorni, più di quanti ne abbia portati a casa con successo nei precedenti otto mesi dell’anno. A dar maggior valore a questo ottimo periodo di forma, va rimarcato come otto delle suddette vittorie siano arrivate contro top 20, di cui ben tre contro top 10. La 26enne cinese, stabilmente nella top 100 da febbraio 2016, grazie soprattutto a piazzamenti nei piccoli International asiatici (nel suo continente ha sin qui conquistato sedici dei diciassette quarti di finale raggiunti nel circuito maggiore), a maggio dell’anno scorso entrava per la prima volta nella top 50, dopo il terzo turno raggiunto al Mandatory di Madrid. Una prima parte di 2018 negativa – eccezion fatta per gli ottavi a Indian Wells – l’aveva fatta sprofondare al 91°posto del ranking. I quarti a Strasburgo, il terzo turno al Roland Garros (eliminando Venus Williams, seconda top ten battuta in carriera) e la vittoria dell’International di Nanchang avevano rimesso in sesto la sua classifica, prima dell’evoluzione in classifica avvenuta a settembre, mese iniziato da 44° giocatrice del ranking WTA. Il titolo a Guanghzou, la finale a Hong Kong e le semifinali all’International di Hiroshima e al Premier Mandatory di Pechino le hanno permesso di guadagnare ulteriori ventidue posizioni e partecipare alle WTA Elite Finals: nel suo girone è stata prima piegata da Kasatkina (vincitrice col punteggio di 6-1 2-6 7-5), 10 WTA, e ha poi avuto la meglio su Keys (1-6 6-3 6-1), 16 WTA. La finalista degli US Open 2017 si era guadagnata l’accesso alle semifinali, ma il ripresentarsi del problema al ginocchio sinistro sofferto nelle ultime settimane ha consentito alla cinese di essere ripescata al suo posto. Una buona sorte ripagata, contro una Muguruza fantasma di se stessa, con una prestazione ottima (6-2 6-0) e capace di regalarle l’approdo in finale e la certezza di chiudere la stagione nella top 20. Contro la Barty ha potuto ben poco, arrendendosi col punteggio di 6-3 6-4, ma il suo 2018, in particolar modo questi ultimi due mesi, resta straordinario. 49 – le partite giocate nel 2018 da Rafael Nadal. Il campione maiorchino dal 2005 in poi – la prima stagione terminata da numero due del mondo – solo nel 2012 ha giocato meno match nel corso di un anno. In quel caso l’undici volte vincitore del Roland Garros interruppe prematuramente la stagione con soli quarantotto incontri disputati: dopo la sconfitta al secondo turno di Wimbledon contro Rosol, si fermò a causa di un infortunio al ginocchio sinistro. Il 2012 fu il primo anno dal 2004 nel quale Rafa non concluse la stagione in uno dei primi due posti del ranking, pur vincendo il settimo Roland Garros, accompagnato dai “soliti” titoli a Monte Carlo, Roma e Barcellona (perse un solo set per portare a casa questi quattro tornei) e perdendo la maratona in finale a Melbourne contro Djokovic. Se Rafa dovesse arrivare in finale alle prossime ATP Finals potrebbe superare anche le cinquantatré partite da lui giocate nel 2016, probabilmente la peggiore stagione della sua carriera, terminata al nono posto del ranking: la prima, dal 2004, nella quale non ha raggiunto nemmeno un quarto di finale in un Major, archiviata tra l’altro con due soli titoli (Monte Carlo e Barcellona). Nonostante un numero così esiguo di match disputati (gli altri anni Rafa ha almeno giocato settanta partite) il maiorchino, ritiratosi a Bercy per la seconda volta nel 2018 a tabellone già sorteggiato (era accaduto anche a Cincinnati), ha ancora la chance di chiudere al numero 1 del ranking ATP. Una posizione che deteneva – a eccezione di sei settimane totali – dal 21 agosto 2017 e che Djokovic gli ha strappato, portandosi avanti di poco più di 500 punti. Una classifica in ogni caso ottima, utile a fotografare la preparazione scientifica del calendario da parte dello spagnolo, sempre più frenato da inevitabili acciacchi per un trentaduenne costretto a chiedere più del massimo al suo corpo, da oltre quindici anni di iper-professionismo. Un tentativo riuscito (nel 2018 ha vinto Roland Garros, tre Masters 1000 e l’ATP 500 di Barcellona) di allungargli carriera e rendimento ad altissimo livello, nonostante l’usura psico-fisica del tempo e del suo gioco. Ammirevole. 6990 – i punti conquistati da Novak Djokovic negli ultimi quattro mesi e mezzo, un bottino capace di consentirgli un impensabile balzo – per il piccolissimo lasso temporale utilizzato – dal 21° al primo posto del ranking. Due Slam vinti (Wimbledon e US Open), due titoli ai Masters 1000 di Cincinnati e Shanghai (più la finale a Bercy e all’ATP 500 del Queens) gli hanno consentito di tornare dove mancava da esattamente due anni. Una cima della classifica che, per come aveva giocato nella prima parte del 2018 – dopo il Roland Garros era solo al 19° posto della Race – sembrava improponibile, quantomeno in tempi stretti. Da gennaio a maggio di quest’anno Nole ha perso quattro partite (Chung, Daniel, Klizan e Cecchinato) contro tennisti non nella top 50 del ranking, un numero maggiore delle tre sconfitte rimediate contro giocatori con la medesima classifica dal 2011 al 2017 e utile a capire come il tennista sceso in campo nei primi mesi dell’anno non fosse più lui. Dal Queens sino alla finale persa a Bercy con Khachanov ha invece perso appena tre partite, vincendone ben trentacinque (di cui undici contro top ten, con l’unica sconfitta arrivata nella finale contro Cilic al Queens). Nel suddetto periodo è arrivata una corrispondente percentuale di vittorie pari al 92,1%, inferiore solo al 93,2% (82 vittorie e 6 sconfitte) con cui chiuse il magico 2015 dei tre Slam vinti, assieme ad ATP Finals, sei Masters 1000 e all’ATP 500 di Pechino. Un rendimento incredibilmente uguale al 92,1 % (70 vittorie e 6 sconfitte) con cui Nole ha terminato un altro anno per lui straordinario come il 2011, nel quale ha vinto tre Major, cinque Masters 1000, Dubai e il torneo di casa di Belgrado. La finale persa contro Khachanov nulla toglie, a prescindere da come a Londra concluderà il suo 2018, alla certezza di avere Djokovic nuovamente agli altissimi livelli di rendimento abbandonati dall’ultima parte del 2016. ...

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