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Galeazzi, l’urlo che arrivava al cuore (Gallo, Veltroni, Dotto, Sorrentino). Berrettini: “Vedrete un giocatore diverso” (Bonsignore). I Magnifici 8 (Bertellino, Martucci, Semeraro, Jacobelli, Mastroluca, Crivelli)-

Galeazzi, l’urlo che arrivava al cuore (Massimiliano Gallo, Il Corriere dello Sport) Scudetto è quando Galeazzi ti prende sottobraccio. Negli anni Ottanta era lui a certificare la vittoria del campionato. Ben prima del tricolore sulla maglia. L’arbitro fischiava la fine e Galeazzi aveva già catturato la sua preda. Che fosse Bagnoli, Bianchi, Liedhoim, Trapattoni. Poco importa. […] Con quel tono di voce rauco e quell’enfasi che lo hanno reso un marchio inconfondibile. Giampiero Galeazzi aveva un rapporto fisico con la notizia. La pedinava. Non la lasciava mai. E la confezionava come meglio non si poteva. Dove c’è la notizia, c’è Galeazzi. C’è però una differenza importante rispetto a tanti tallonatori col microfono arrivati negli anni successivi. Galeazzi non appariva mai molesto. Non era un persecutore. Anzi. Gli interlocutori gli sorridevano, lo attendevano. Anche perché sapevano che essere intervistati da lui significava o aver vinto lo scudetto o comunque la certificazione di essere il personaggio della giornata Si finiva alla Domenica Sportiva che era la Cassazione del calcio italiano. Non si poteva fare brutta figura. E i personaggi si prestavano. Tùtti. Dino Vola confezionava perle ermetiche intervallate da pause craxiane. L’Avvocato le solite battute fulminanti. Maradona nello spogliatoio di Napoli gli regalò una straordinaria interpretazione da showman nel giorno del primo scudetto.[…] Non a caso Mara Venier lo volle a Domenica In, creando scandalo nella categoria. Se n’è andato ieri, a 75 anni. E non è retorico dire che simboleggiava un giornalismo e un mondo che non esistono più. Sono dati di fatto. Non c’era Internet. II massimo dell’aggiornamento in tempo reale era Televideo, con i risultati che lampeggiavano per far capire che la partita era in corso. Imperava, di fatto, il monopolio Rai. O apparivi lì, o non eri nessuno. Non c’erano le pay tv. Né i cartelloni zeppi di sponsor per le interviste. Si facevano dove capitava, spesso in corridoi affollati. Galeazzi catturava il personaggio e via. La grande forza di quel giornalismo è che sembrava improvvisato, quasi dilettantesco. Poi, però, ti ritrovavi la dichiarazione di Maradona o Trapattoni che tenevano banco tutta la settimana. . Eppure l’intervista calcistica più impossibile non regge il confronto con quello che è stato l’impareggiabile risultato professionale di Galeazzi: aver reso popolare il canottaggio. Aver inchiodato gli italiani davanti alle tv per uno sport che definire spettacolare è un esercizio spericolato. Non è semplice stabilire se si guardava le gare per i fratelli Abbagnale o per le sue telecronache. Erano un tuttuno. Come per De Zan e il cidismo, Paolo Rosi e l’atletica. Ma col canottaggio è più complesso. Era lui a tenere viva l’attenzione per i duemila metri della gara. Era riuscito a creare un rapporto simbiotico tra la performance dei fratelloni stabiesi e la sua voce. Sembravano che stessero compiendo lo stesso sforzo. «Trentotto colpi al minuto», gridava alla Adriano Pappalardo (altro cantante anni Ottanta). E non sapevi se essere più preoccupato per la sorte sua o degli azzurri. Senza Galeazzi, la leggenda degli Abbagnale non sarebbe stata la stessa. Nonostante la loro straordinaria serie di vittorie. Perché Galeazzi decorava l’evento sportivo, lo arricchiva. Non lo subiva passivamente. Incredibili a dirsi, il suo terzo sport era il tennis. L’Esatto contrario di canottaggio e calcio. La disciplina dei fighetti, per quanto Panatta lo avesse reso popolare. E anche lì Bisteccone – era l’inconfondibile soprannome – non rinunciò al suo stile. Anche perché se non ci pensava lui a rivitalizzare i telespettatori, diventava dura. Canè non era né Berrettini né Sinner I suoi punti erano sensibilmente più rari. E allora Galeazzi si arrangiava come meglio poteva: conia il “turborovescio” e quando il tennista imbroccava un gran colpo, chiosava: «E questo è Cané». Purtroppo, mormoravano da casa. Ma si rimaneva lì incollati ad aspettare quel momento. Galeazzii ha abbattuto barriere, ha reso umani e accessibili i protagonisti dello sport italiano. In fin dei conti, è semplice descriverlo con poche parole: era un grande giornalista Grazie, Giampiero. Che emozioni con le tue urla (Walter Veltroni, La Gazzetta dello Sport) Si, certo, è rimasta nelle orecchie di tutti gli sportivi la sua formula «E ora andiamo a vincere». […] Ma Giampiero Galeazzi è stato in primo luogo, e così voglio ricordarlo, un grande giornalista, uno spettacolare cronista, un carismatico telecronista. Le tre dimensioni non si riassumono in una sola. Sono tre specialismi, difficilmente rintracciabili in un’unica persona. Emozione e competenza Il giornalismo sportivo, considerato spesso una specie di Cenerentola della nobile arte, ha sempre prodotto dei talenti capaci di saldare notizia e passione, approfondimento e partecipazione emotiva, enfasi e senso dell’umorismo. […] Lo sport è un mondo narrativo a parte che richiede di saper dosare, come in un sapiente miscelatore, caldo e freddo, sapere e commozione. Il ricordo che io ho di Galeazzi è il suo sudore, il magnifico sudore di chi fatica, di chi partecipa. Il sudore che gli imperlava volto e abiti quando, inesorabilmente per primo, intervistava, beccandolo «a caldo» – definizione non casuale il vincitore di uno scudetto o di una medaglia. O anche quando, bagnato d’acqua lanciata da altri, lo si trovava in uno spogliatoio festante, magari con l’idea di passare al Maradona di turno il microfono che cattura le voci e l’esplosione di gioia di un momento. Il giornalista Galeazzi, come il cronista Galeazzi, come il telecronista Galeazzi credo potrebbe far scrivere come suo epitaffio: «Non fu mai banale». Gigante Per questo, non certo perché era alto e grande come Bud Spencer, si è stagliato nel panorama dell’informazione televisiva. [..]. Ha partecipato a trasmissioni di successo anche non sportive come Domenica In, senza rinunciare ad essere personaggio ma sempre salvaguardando la sua identità e dignità di giornalista. Ha, come Mike Bongiorno, giocato con le parole. Una volta a Giancarlo Dotto, che gli ricordava come in una telecronaca di tennis avesse detto: «questo rovescio di Lendl è una bomba al nepal», rispose: «Un’altra volta me scappò “roulotte russa”, ma sai che per anni ho trasmesso otto ore di tennis al giorno». Ha vissuto con ironia le imitazioni che la sua simpatia alimentava, Nicola Savino ne sa qualcosa. Talvolta era eccessivo, tonitruante, e sembrava voler inseguire, anche con il tono e le parole, il suo aspetto. Aveva poi quel distacco, diverso dal cinismo, che è parte del Dna di chi è nato, cresciuto ed ha vissuto nella capitale d’Italia. La sua generazione è stata una fucina di grandi raccontatori dello sport radiofonico e televisivo. Noi abbiamo nella memoria, indelebili, delle voci, senza le quali gli eventi non erano riconoscibili: una corsa ciclistica senza Adriano De Zan, l’atletica senza Paolo Rosi, il tennis senza Bellani e poi Oddo, l’ippica senza Giubilo, Benvenuti-Griffith senza Paolo Valenti. E il canottaggio senza Galeazzi? Potrei continuare, nessuno si senta offeso. Maestri Era il tempo di Martellini, di Ciotti, di Ameri, di quel genio di Beppe Viola, del meraviglioso giornalismo, un giorno gli verrà pienamente riconosciuto, di Gianni Minà. Era il tempo di Novantesimo minuto, con la galleria di cronisti che in qualche modo erano fortemente caratterizzati. Gli spettatori si affezionavano a Tonino Carino, Cesare Castellotti, Marcello Giannini, Ferruccio Gard, Giorgio Bubba, Piero Pasini, Emanuele Giacoia, Luigi Necco. Provate a chiedere ad un coevo di quella mitica trasmissione di abbinare squadra e città a questi nomi e agli altri, non men degni; vedrete che nessuno sbaglierà. Durante uno dei collegamenti di quel programma fu proprio Galeazzi a dare per primo, da cronista di vaglia, la notizia sconvolgente degli arresti per il calcioscommesse del 1980. La raccontò agli sportivi atterriti dalla vista delle macchine della polizia in campo negli stadi usando la necessaria, deontologica, prudenza ma senza risparmiare nessuna informazione. Simpatia Galeazzi ha combattuto negli ultimi anni con un fisico che lo torturava. E credo abbia sofferto molto. Gli italiani gli hanno voluto bene. Lo ricordano con il rispetto che si deve a un vero giornalista, cronista, telecronista. E lo ricordano con un sentimento che forse lui non si sarebbe aspettato, grande e grosso com’era. Lo ricordano con dolcezza, come una voce emozionante e simpatica del proprio vissuto “Da Diego a Jacobs, tutti i miei mitici” (Giancarlo Dotto, Il Corriere dello Sport) Immenso Giampiero, in tutti i sensi possibili. Amavo quest’uomo. I suoi racconti. Le sue sintesi folgoranti. ..Dovevo anda’ alla Doxa, invece finii alla Fiat, a Torino, come atleta. Qualche mese, poi er ghiaccio, er gelo, scappai a Roma. Me volevano manna’ in Sudamerica. Me sarvò che i tupamaros ammaazzarono dodici dirigenti della Fiat. Lo dissi a mio madre: vedi che succede da quelle parti? E così rimasi a Roma a fa’ er vitellone». Ho cominciato ad amarlo quel giorno, 14 anni fa, il Vitellone, nel frattempo diventato Bisteccone. Canottieri Roma, la sua seconda casa di sempre. Lui, al tramonto, incastrato in una poltrona di vimini, la voce inconfondibile, appena ammorbidita dai languori che salivano dal presentimento della cena, un’immagine lirica come poche. Nessuno mi dava pace e nessuno mi faceva ridere come lui. La penultima volta, lo scorso agosto al telefono, lui steso sul divano a non perdersi un frammento di Tokyo: «Piovono medaglie. Qui ce vo’ l’elmetto!». L’ultima volta, nemmeno due mesi fa, a casa sua. Lui, enorme, nudo, come un imperatore bambino, che tramava e tremava sotto un lenzuolo bianco per via del Parkinson. Mi aveva chiamato. «Dobbiamo scrivere un libro insieme». Non era tanto la sua vita che voleva raccontare, ma il mondo, di quanto era cambiato e di come non sarebbe mai più tornato lo stesso, quel suo piccolo mondo antico che gli era rimasto nelle vene e nei forzieri di una memoria lucidissima. Aveva già il titolo in testa. «Quando giocavo a piazza di Spagna». Della vecchina a via Vittoria che vendeva i pennini del calamaio, tre pennini cinque lire». Lo ascoltavo e sentivo di volergli bene. Quel delicato omone. 75 anni e non un solo giorno sprecato a contemplare ciò che era possibile vivere. Quel libro. Non c’è stato tempo. […] Come te Ia passi Giampiero? «Sto a pezzi, sto qui piegato in due sul divano, dopo la fisioterapia…». Vuoi che rinviamo? «Ma no, famola adesso, che poi devo stare con mio figlio…». Li stai seguendo questi Giochi? Sai stare a letto tutto questo tempo. Ho difficoltà serie di deambulazione. Cammino a fatica. A giorni vado, altri no». Come li stai vivendo? «Sono partiti a fari spenti con questo Covid. Mettiamoci al posto degli ‘atleti. L’incertezza. Li fanno o no? Molto duro, dal punto di vista psicologico e della preparazione. Pensavo che’ li rimandassero. I giapponesi non li volevano». Giusto non rimandarli? «Sarebbe stato meglio evitare tutto questo gigantismo. Se ne poteva fare a meno di tutte queste discipline da esibizione, lo skateboard, il surf, l’arrampicata. Hanno portato 340 persone. Sai quanti eravamo noi in Messico?» No. «Quasi la metà, 180. No, non mi sarei allargato così, viste le circostanze…». Sei andato come riserva del canottaggio. «Amo lo sport e lo odio per questo motivo. E stata la più grande delusione della mia vita. Meritavo di essere titolare». Ti brucia ancora? «Mi brucia più di prima. Se ci penso divento idrofobo. Una delle più grandi ingiustizie sportive di sempre. Fosse stato oggi sarei andato in automatico e m’avrebbero portato le valigie. C’era un discorso politico sotto, il rapporto tra società e Coni. Se fossi stato dell’Aniene sarei andato con la tromba». Tanti, forse troppi, a Tokyo, ma vincenti. E che vittorie! «La vittoria di Jacobs sui 100 metri è tecnicamente la sorpresa maggiore. Un italiano sul podio più alto. Inimmaginabile. M’ha emozionato Tamberi. S’è portato il gambale dell’operazione come un totem e se l’è messo vicino all’asticella. Roba da pazzi. Solo l’assurdità dello sport può questo. Recuperi e vittorie miracolistiche». Mai visto Giovanni Malagò così commosso. «È un combattente, un uomo che non s’è mai tirato indietro. S’è messo sulle spalle tutto il mondo sportivo, contro i politici che non lo possono vedere». Malagò, bravo e fortunato. «C’ha un culo grande così, ma se lo merita tutto». Vuole vincere ancora, è insaziabile. «Ha imparato da Agnelli e da Montezemolo». Che altro ti ha emozionato? «Le medaglie di Paltrinieri e l’oro delle ragazze del canottaggio femminile. Queste due ragazzine di Varese hanno sfondato ogni pronostico. Hanno fatto una cosa straordinaria. Erano quarte ai 200 metri…». Giampiero telecronista a Tokyo: Cosa ti sarebbe piaciuto raccontare, canottaggio a parte? «Famme pensa’…Io ho cambiato lo stile d’interpretare il racconto dello sport. l’atletica leggera non è nelle mie tonde. Mi sarebbe piaciuto raccontare i tornei oscuri che nessuno guarda, quelli sulle pedane, i tappeti, la lotta, queste cose qua». Il tennis? «Il tennis non fa parte delle Olimpiadi Iasciatelo a Wimbledon, Roland Garros. Quello è il suo mondo, la sua liturgia. Il tennis all’Olimpiade è uno sport clandestino. Più emozionato per i due ori in sequenza dell’atletica o la vittoria della Nazionale agli Europei? «I due ori dell’atletica, senza dubbio alcuno». Insinuazioni malevoli sulla vittoria di Jacobs. «Quello che ci hanno fatto gli inglesi dopo il calcio era roba da chiudere le ambasciate. Hanno rifiutato le medaglie, ci hanno sputato in faccia. Noi italiani non siamo molto amati all’estero per la brutta nomea. Hai visto Cuomo?». Cuomo, il sindaco di New York? «Lo stanno massacrando solo perché è italiano. Non contano nulla tutte le cose grandiose che ha fatto, prima da governatore, poi da sindaco’. Insomma, solo invidia e maldicenza su Jacobs? «Non credo proprio che sia dopato. Questi poi stanno sempre sotto osservazione. Stiamo parlando di un italo-americano, un Dna speciale. Ha vinto con una spontaneità impressionante. Noi, se togli Berruti e Mennea, certi ori dell’atletica li abbiamo sempre visti dal buco della serratura». Come ti sembra la copertura Rai dei Giochi? «Abbiamo una buona scuola di base. Abbiamo sempre fatto bene alle Olimpiadi. ll Migliore? Bragagna con l’atletica. Bene anche il nuoto. In altri sport ci siamo arrangiati con i tecnici, cui manca però il senso del racconto, cioè tutto. Mi sono piaciute le donne a Tokyo, nei commenti e nelle cronache». Guardi al passato? «Mai guardato al passato. Non ero mai stanco. Una furia. Adesso mi sono fermato. Tomo indietro con la mente». E? «Mi pesa il distacco dall’ambiente lavorativo. Mi manca quella cosa lì. Prima sei un ufficiale a cavallo, poi non sei nemmeno un fante pedestre». Maradona era un tuo amico. La sua morte? «Era finito in brutte mani. Sfruttato da tutto l’ambiente, parenti e amici. Anche i medici. Si sono buttati addosso come le cavallette per aiutarlo, invece l’hanno ammazzato». Hai avuto dalla Rai quello che meritavi? «Mamma Rai ti dà e ti leva. Io sono stato fortunato perché a un certo punto ero come Baudo e Martellini messi insieme. Spettacolo e sport. Ho spinto troppo. Dovevo fermarmi prima e pensare un po’ alla carriera». Invidia suscitata? M’hanno fatto veramente di tutto. Puoi immaginare…». La più difficile da sopportare? «M’hanno tolto il canottaggio due anni prima di andare in pensione. Un dispiacere enorme. Diceva Lello Bersani: tutto è permesso in Rai fuor che il successo. Ho pagato questo. Andavo tra la gente e sembravo l’apostolo. Sempre dritto come un treno, mai fregato niente dei detrattori. Trovo solo ingiusto che alcuni devono andare in pensione a una certa età e altri invece…». Un esempio? «Bruno Vespa. Direttore megagalattico, per carità, ma non c’entra. Lo stesso Marzullo». Ha annunciato l’addio anche Paola Ferrari. Ne sentirai la mancanza? «Non molto. Ci ho lavorato parecchio insieme. Ultimamente era molto migliorata. È sempre stata troppo invadente, Monopolizza lo spazio, ha prevaricato íÍ suo ruolo. Prima non si preparava, ora aveva imparato a farlo. Il tuo erede? «Mah, dicono tutti questo Pardo. È intelligente, bravo, ma fa troppe cose, lo vedo ovunque, così si perde… Sentiamoci domani, respiro male». Come va la gamba? «Sto cercando di recuperare dopo l’operazione a Bologna di cinque anni fa. La protesi al ginocchio ha portato a mille tutte le mie problematiche, la pressione sanguigna alta, la glicemia-alta, il diabete, l’aritmia cardiaca». Hai vissuto troppo generosamente. «Il ginocchio è la mia croce, me lo so’ rotto a 25 anni. Me l’aveva detto Greco, il mitico massaggiatore del Coni: “Non te fa’ tocca mai… sfiammi, fai ginnastica, creme, massaggi”». Tornassi indietro? «Non mi opererei di certo. Non mi fossi operato, oggi sarei salvo, pigliavo il bastone e chi se ne frega. M’ha dato più problemi che vantaggi questa protesi. E poi, ho fatto troppo sport…». Lo sport fa male a certi livelli. «Non c’è dubbio. Pensavo che facendo più sport avrei tenuto al riparo la muscolatura, la circolazione. Sbagliavo. Devi preservare il tuo equilibrio interno». Esempio? «Se fai il tennis non puoi fare il sollevamento pesi. Fa male assommare le cose. Io giocavo a pallone, a tennis, remavo, facevo la pallavolo, adesso il risultato è che sto piegato in due e sto respirando male». Eccessi dl cibo. «Tu sai benissimo com’era la nostra vita in giro per il mondo. Tornando indietro, starei più attento non tanto al mangiare, ma a prendere più spazio perla mia vita privata. per me e per la mia famiglia. Facevo tutto, andavo dovunque, mondiali calcio, tennis, motonautica, ciclismo’. Sei migliorato con II peso? «Un po’ so’ sceso. Oggi sto sui 150 chili. Questo non m’aiuta». La vita merita di essere vissuta? «Assolutamente sì, sempre». Spiegandoia a un ragazzo che non la pensa cosi? «Dietro ogni ostacolo che affronti, scopri cose nuove di te, nuove energie, nuova vita, senza mai spegnerti, sempre all’attacco». Campioni che si ostinano. Ha annunciato l’addio Valentino Rossi. «I grandi campiono sono immortali. Alcuni soffrono la mancanza di cultura, la scarsa capacità di adattamento. Guarda Totti, immenso in campo, il più grande calciatore italiano, ma fuori dal campo lo vedo in difficoltà». Il più grande sportivo mai raccontato? ‘Maradona, senza dubbio. Di Federer ho fatto in tempo a raccontare solo gli inizi». Il più grande telecronista Italiano di sempre? «Paolo Rosi è stato il primo telecronista moderno. Ma il più grande di tutti è stato quello della televisione svizzera… adesso m’è passato di mente il nome». Quando sei solo, il tempo che passa, gli acciacchi che aumentano e, hai paura di quello che ci sarà o non ci sarà dopo? «Non ancora. M’affaccio al balcone tranquillamente. Non mi butto di sotto». Quando devi dire grazie a qualcuno. «A mia moglie Laura che per trent’anni ho visto poco per la mia vita esagerata, ma ha tenuto da sola in piedi la famiglia». ATTO SECONDO Mi parla questa volta dalla terrazza di casa. Su una sedia di legno. In bermuda e dentro una canotta extralarge. Tre x. Prende il sole. Di ottimo umore. La voce è tornata bella e potente. Quella di sempre. Mi chiama. «Aho’, qui dovemo cambia’ tutta l’intervista». Perché, che è successo? «Ma come, non lo sai? Ma che stavi su Marte? Avemo appena vinto anche l’oro nella 4×100 uomini. Una pazzia. È come ave’ vinto la guerra». Tornavo da Marte. Dici sul serio? Non ci credo. «Incredibile. Qui piovono medaglie da tutte le parti. Tocca mettese l’elmetto… Richiamami domattina alle 10 che dovemo cambia’ tutto». ATTO TERZO La voce è tornata debole. Parla a fatica dl prima mattina dal letto dl casa. «Ho dormito male. Non riuscivo a respirare bene». Sono le notti difficili di ‘chi ha troppa vita alle spalle e troppa carne addosso. (qualcosa tra un grugnito e un sospiro) Tomando all’ultima follia di questi Giochi, l’oro della 4×100. «Ci ho ripensato. l’immnagine più bella dei Giochi? La corsa in ottava corsia di Filippo Tortu. Lui li era al bivio della sua storia di atleta: se perdeva era la fine per lui. Ha vinto contro tutti, ha vinto pure contro Jacobs… Ho rivisto il Mennea di Mosca, la corsia era la stessa». Ha vinto contro Jacobs? «Jacobs l’aveva cancellato, l’aveva sportivamente ammazzato. E mi sa che tra i due c’è pure un po’ di freddo, non si prendono tanto. L’ho capito dalle interviste dopo l’oro. Filippo era un po’ sulle sue quando gli chiedevano di Jacobs…». C’è stata poi la rosicante replica della vittoria sugli inglesi. «Lì per lì non c’ho pensato. Era un’impresa di portata mondiale. Poi ch’ho pensato e ho concluso che noi siamo veramente superiori agli inglesi… E comunque, mi raccomando, scrivi della frazione di Filippo lbrtu. Tutto il resto è noia». Il tuo podio finale? «Sul gradino più alto ci metto l’oro sui centri metri, al secondo la staffetta 4×100, al terzo ex aequo Tamberi e le due ragazze del canottaggio. Se resta uno strapuntino, gli ori della marcia». Chi t’ha messo il nome “Bisteccone”? «Gilberto Evangelisti. Al nord sarebbe considerata un’offesa, ma da noi è affettuoso». Tornerai in tivù? «La mia amica Mara m’aveva proposto una rubrica tipo “La posta degli innamorati”, ma le ho detto di no, non c’ho più lo spirito pe fa’ ‘ste cose. Io e lei eravamo una bomba in tivù. Funzionavamo sul piano fisico…». S’è fatta pienotta anche lei. «A Mara je piace magna’, cucina bene, io ne so qualcosa. Sai, il fatto di abitare da tanti anni a Campo de Fiori aiuta, la pasta la fa bene». Stavolta ci salutiamo davvero… «Ah no, aspetta, me so’ ricordato il nome del telecronista più grande di sempre. Giuseppe Albertini, quello della televisione svizzera. Nessuno come lui» “Il mio Giampiero, tra partite, scherzi e cene avventurose” (Andrea Sorrentino, Il Messaggero) C’è ancora la tv in bianco e nero quando Giampiero Galeazzi inizia a diventare il Bisteccone nazionale. E’ il 30 maggio 1976, Adriano Panatta ha appena battuto Guillermo Vilas nella finale degli Internazionali d’italia e in campo è soffocato dagli abbracci di Mario Belardinelli e di un nugolo di affezionati. Galeazzi piomba lì nel mucchio, telecamera al seguito, e tagliando fuori anche Gianni Minà, che sta cercando di parlare con Panatta, si prende il vincitore tutto per lui, gli rivolge le classiche domande a caldo a cui il protagonista risponde confusamente, ancora provato, ma sono emozioni autentiche, le più spontanee. […] SODALIZIO Ma quello con Panatta sarà un sodalizio che andrà oltre, perché oltre a seguire la squadra azzurra in Coppa Davis (ma non nella vittoria in Cile: all’epoca la Rai inviò solo giornalisti della radio, nessuno della tv) anche quando Adriano ne sarà il capitano non giocatore, Galeazzi formerà con lui una coppia affiatatissima di telecronisti, agli Internazionali d’Italia come a Wimbledon, per molti anni. […] Panatta ora ricorda: «Erano telecronache forse meno tecniche e schematiche di quelle di oggi, sicuramente molto più umane, come era lui. Giampiero era la parte professionale della coppia, perché si documentava in modo pazzesco, era preparatissimo e sapeva tutto già prima di arrivare in postazione. Io a volte lo facevo sbagliare apposta: quando si avventurava in qualche disquisizione tecnica, lo contraddicevo per vedere come andava a finire, lui allora cambiava versione perché era bravissimo a parlare… poi quando non ci sentiva nessuno gli spiegavo lo scherzo, e giù risate. Eravamo molto amici. Con lui ho soltanto ricordi allegri e divertenti. Trasferte in tutto il mondo, mangiate avventurose, risate, tanto tennis visto e vissuto insieme, un sacco di prese in giro tra noi. Gli volevo bene. Sapevo che negli ultimi tempi la sua salute andava declinando, ci sentivamo spesso». VITA INSIEME Anche Nicola Pietrangeli era legatissimo a Giampiero Galeazzi. Uniti dal tennis, certo, per via delle imprese dell’Italia in Coppa Davis, ma anche dalla comune passione per la Lazio, e per l’appartenenza al Circolo Canottieri Roma, che ieri ha tributato a Galeazzi un saluto con i suoi canottieri, a remo alzato nell’acqua e al grido di “Galeazzi, hip hip hurrà”. Pietrangeli si trova in questi giorni a Milano per assistere alle Next Gen Finals. E’ molto scosso per la notizia della morte dell’amico, non ha voglia di lanciarsi in discorsi particolari: «Lo conoscevo da quando era ragazzino, capitemi… l’ho seguito fin dai suoi primi passi nel mondo del giornalismo, poi ci siamo visti per una vita. In casi simili, scusatemi, ma c’è veramente poco da aggiungere, da dire. In certi casi resta solo il silenzio, l’assenza di parole, perché non servirebbero a niente. Abbiate pazienza». Due anni e mezzo fa, il 18 maggio del 2019, nel giorno del compleanno di Giampiero Galeazzi e nell’anno del centenario del Canottieri Roma, il Circolo aveva intitolato a Giampiero e a suo padre Rino (che era stato allenatore dei canottieri), il galleggiante, ossia il quartier generale. Alla cerimonia aveva assistito anche Nicola Pietrangeli, e Galeazzi aveva partecipato da par suo, arrivando a bordo di un battello. Berrettini: “Vedrete un giocatore diverso” (Filippo Bonsignore, Il Corriere dello Sport) […] Matteo Berrettini ci ha preso gusto e non vuole fermarsi. La finale di Wimbledon ormai è storia, e che storia. È la vetta più alta (finora) della sua carriera, mai raggiunta da nessun tennista italiano. Ora c’è un’altra sfida da vincere, una sfida che, grazie alla sua straordinaria ascesa, sta diventando una consuetudine: si chiama Atp Finals, il torneo che elegge il Maestro tra i migliori otto del circuito. il numero uno azzurro è alla seconda partecipazione in tre anni (Io scorso era prima riserva) ma stavolta è molto diverso. Perché è un altro Matteo, quello che sbarcato sotto la Mole a caccia del colpo grosso: un giocatore cresciuto in risultati, costanza di rendimento, tecnica, mentalità, consapevolezza. […] «Significa molto per me essere a Torino, poter giocare questo torneo così importante in Italia è incredibile. Me lo sono guadagnato e sono molto felice. So che avrò il pubblicò dalla mia parte». MONTAGNA. Berrettini vuole sfruttare tutta l’energia dei fan per scalare la montagna di un girone tutt’altro che semplice. Certo, essendo un torneo che mette di fronte l’élite mondiale, non sarebbe stato in ogni caso agevole, ma il sorteggio non è stato particolarmente favorevole. L’incrocioo immediato con Djokovic (il serbo si è allenato ieri proprio con il romano) è stato evitato, però il gruppo Rosso comprende comunque il numero due al mondo, Daniil Medvedev, che lui definisce sorridendo «gommoso»; «l’imprevedibile» Hubert Hurkacz, «il solido» Alexander Zverev. Sarà il tedesco, numero due del ranking, il primo ostacolo domani sera. Nei precedenti quattro incroci l’azzurro ha vinto una sola volta, agli Internazionali di Roma. «Sarà dura, ma non è che contro Medvedev o Hurkacz sia meno complicato. Tutti sono forti a questo livello. Zverev quest’anno ha vinto tantissimo, su tutte le superfici, ha già vinto le Finals, nonostante sia più giovane di me, e sa già cosa aspettarsi. Sarà una bella lotta; l’importante è essere carichi e pronti». NUOVO MATTEO. Berrettini è carico. Eppure, rispetto a due anni fa, è anche un uomo più consapevole dei propri mezzi e delle proprie qualità, forte del percorso compiuto. «Rispetto al 2019, sono un giocatore e una persona diversa, con tanta esperienza in più nel Tour Anche la qualificazione è arrivata in maniera diversa: due anni la centrai per poco, quasi non me l’aspettavo. Andare a Londra è stata quasi una festa. Ora invece arrivo a Torino con tante aspettative, dunque l’approccio ai match e al torneo sarà diverso. Le partire saranno tutte dure, si giocheranno su pochi punti, per questo spero che la spinta della gente di casa faccia la differenza». Pressione? Si, ma con modera zione. «La sento, certo, ma è una pressione positiva. Non vedo l’ora di giocare, anche se dall’altra parte troverò i migliori del mondo. Del resto, pure io sono uno di loro…». Consapevolezza, appunto. Per pochissimo, gli italiani avrebbero potuto anche essere due, visto che Sinner è rimasto fuori dai “magnifici 8” per una manciata di punti, anche se sarà comunque a Torino come prima riserva. «Ho sperato tanto che ci fosse anche lui. Con Jannik ho un ottimo rapporto, ci stimoliamo a vicenda a fare meglio. Ha cinque anni in meno di me, ha vissuto un anno straordinario e sono sicuro che avrà molto presto l’occasione di giocare le Finals. Mi farà da sparring? Potremmo allenarci insieme: non voglio usarlo, sia chiaro (ride, ndr)! Io l’ho fatto l’anno scorso a Londra e, se presa nel modo giusto, è un’esperienza formativa». Berrettini applaude anche Torino: «Provo buone sensazioni stando qui: l’Italia meritava questo evento e l’organizzazione è perfetta. L’energia che mi arriva è ancora più alta rispetto a quella che sentono gli altri» ...

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